Marx e la crisi della classe media

1.

In un articolo precedente ho segnalato un indizio particolarmente significativo: una manifestazione popolare negli Stati Uniti che ha visto scendere in piazza la classe media contro la politica economica dell'Amministrazione Bush. L'indizio è importante perché rivela un malessere di una classe che è stata da sempre il sostegno del potere e dell'ordinamento capitalistico e che, storicamente, ha funzionato come maggioranza silenziosa a suo sostegno e cuscinetto ammortizzatore delle spinte sociali provenienti dal basso (operai, sottoproletari).

Come noto, Marx aveva previsto un'evoluzione sociale del sistema capitalistico dicotomica tale da scindere la società in due sole classi: la borghesia e gli operai. In conseguenza di questa scissione, che avrebbe contrapposto un'infima minoranza parassitaria ad una stragrande maggioranza di sfruttati, egli aveva preconizzato la presa del potere da parte della maggioranza, cioè di coloro che di fatto producono ricchezza e ne sono espropriati. Tale presa di potere che avrebbe inaugurato l'avvio di un lungo processo di cambiamento economico, sociale e culturale destinato ad approdare al comunismo, egli la definì dittatura del proletariato per intendere il diritto della classe dei lavoratori, in quanto maggioritaria, di detenere il controllo sui mezzi di produzione impedendo la loro privatizzazione da parte dei capitalisti.

La chiave della teoria marxista si fondava dunque sulla ineluttabile preletarizzazione della società. Un processo - questo - dovuto alla logica di concentrazione del capitale, che avrebbe finito con il portare, per disperazione, anche i ceti medi dalla parte degli operai, modificando radicalmente un orientamento ideologico tradizionalmente conservatore. Nel Manifesto si legge: "I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l'artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l'esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancor più, essi sono reazionari, essi tentano di fare girare all'indietro la ruota della storia." Cionondimeno, in conseguenza dello sviluppo capitalistico, anche questi ceti, investiti dal pauperismo, saranno costretti ad allearsi con gli operai. Si legge sempre nel Manifesto: "Quelli che furono finora i piccoli ceti intermedi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all'esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione."

Marx riteneva che questa previsione si sarebbe realizzata in tempi brevi, e che quindi si sarebbero date, già nel corso dell'800, i presupposti della rivoluzione. Nei tempi brevi, questa previsione è risultata clamorosamente errata. Le conseguenze di questo errore sono state catastrofiche perché esse hanno prodotto, in Russia una rivoluzione fondata solo sul consenso della classe operaia, assolutamente minoritaria, e in Occidente un orientamento operaistico dei Partiti comunisti, che è finito per inimicare loro i ceti intermedi, soprattutto piccolo-borghesi, che vedevano minacciati dal fantasma della rivoluzione proletaria i loro esigui privilegi.

A posteriori, l'errata previsione di Marx è facile da comprendere, e si fonda su di un paradosso. L'analisi del capitalismo muove dalla critica dell'economia classica, che definisce come oggettive le leggi che regolano la produzione e la distribuzione dei beni. Nello stesso tempo però Marx, avendo ricondotto quelle leggi ad una logica ferrea, quella della riproduzione e dell'accumulazione del capitale, ritiene che tale logica si realizzi per conto proprio inducendo i capitalisti a funzionare come pedine di un ingranaggio. In conseguenza di questo, egli è giunto alla conclusione che il capitalismo ha una vocazione autodistruttiva. Ha insomma attribuito ad esso una rigidità quasi meccanicistica che, sui tempi brevi, è risultata infondata.

Giunto infatti, nella seconda metà dell'800 sulla soglia della proletarizzazione dei ceti intermedi, il capitalismo, terrorizzato dalla possibilità di una rivoluzione socialista, ha avviato, addirittura con il reazionario Bismarck, una politica di previdenza orientata ad ammortizzare le conseguenze del libero mercato. Nel 900 poi, esso ha inteso la necessità di una base di consumo più ampia avviando la società di massa del benessere, che ha concesso ai ceti piccolo-borghesi e a larghe fasce del proletariatio l'accesso ad un tenore di vita affrancato dalla povertà. Negli ultimi trent'anni, infine, con la nascita e con la crescita del terziario, la classe operaia è diminuita continuamente di numero. Attualmente dunque il ceto (se non si vuole parlare di classe) statisticamente maggioritario, è rappresentato in gran parte proprio dalla piccola borghesia di cui Marx prevedeva la proletarizzazione.

Che cosa è accaduto di fatto? La prima risposta porterebbe a pensare che Marx, accecato dalla sua ostilità ideologica nei confronti del capitalismo e convinto della sua natura contingente, sia stato indotto all'errore dal non avere tenuto conto della flessibilità del sistema e della sua capacità di compensare la concentrazione dei capitali con una ridistribuzione, sotto forma di reddito da lavoro e di previdenza, atta ad impedire l'immiserimento della massa della popolazione. Questo, per alcuni aspetti, è indubbiamente vero. Ma occorre tenere conto che, nelle analisi successive al Manifesto, Marx stesso giunse a dubitare della validità sui tempi brevi delle sue previsioni. Per un verso, egli considerò la possibilità di una ridistribuzione del reddito che potesse indurre un imborghesimento della classe operaia; per un altro, analizzando la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, che comportava una progressiva riduzione dei guadagni capitalistici, e quindi il sopravvenire di crisi economiche, egli giunse ad identificare tutta una serie di controtendenze atte a neutralizzare l'azione della legge. In particolare egli identificò: l'aumento della produttività dovuto allo sviluppo di macchine sempre più efficienti; l'aumento dell'intensità dello sfruttamento lavorativo; il contenimento e la compressione dei salari; l'eccedenza relativa di popolazione, che crea un esercito di disoccupati, che concorre a contenetere i salari; il commercio estero che permette ai paesi capitalisti di acquistare materie prime a basso costo.

Se si considerano questi fattori, si rimane letteralmente sconvolti dalla lucidità analitica di Marx, che ha commesso l'errore di pensare che essi dovessero agire tutti insieme in breve tempo, ma vanamente, nel senso almeno di non impedire un tracollo rapido del sistema capitalistico. In realtà, quelle controtendenze si sono realizzate lentamente nel corso del tempo. L'aumento della produttività dovuto ai progressi tecnici e il commercio estero, vale a dire la rapina a danno dei paesi sottosviluppati, si sono realizzati rapidamente e continuamente dall'800 ad oggi. La loro realizzazione ha però consentito di diminuire o almeno di contenere lo sfruttamento lavorativo e di consentire un lento ma graduale miglioramento dei salari. Ciò, associato agli interventi previdenziali dello Stato, ha prodotto un aumento del tenore di vita e una riduzione delle tensioni sociali, vale a dire la crescita anzivhé l'immiserimento progressivo dei ceti medi.

Negli ultimi decenni, però, le cose sono cambiate. Nessuno è ancora in grado di analizzare con precisione le cause del cambiamento. Il campanello d'allarme è sicuramente riconducibile alla crisi petrolifera degli anni '70, che inaugurò la messa in discussione del Welfare in Europa e in Giappone, e rilanciò il modello liberista. Un secondo motivo è l'avvento dell'era dei computer, vale a dire di macchine che hanno di sicuro incrementato la produttività, ma riducendo progressivamente la domanda di lavoro. Un terzo motivo è il decollo industriale di paesi in precedenza sottosviluppati, soprattutto dell'Estremo Oriente (l'ultimo dei quali in ordine di tempo è la Cina) che ha inasprito la concorrenza, prima praticamente inesistente ai paesi occidentali, costringendo questi a ristrutturazioni univocamente incentrate su tagli dei costi a carico della forza lavoro. Un ulteriore motivo riguarda il commercio estero. Nonostante i trattati commerciali redatti sotto l'egida del WTO continuino a favorire l'Occidente, la possibilità di "rapinare" i beni naturali del mondo sviluppato urta contro una crescente resistenza, in seguito alla quale le multinazionali hanno adottato la strategia di dislocare la produzione in quel mondo, potendo utilizzare in loco quei beni e contare sul basso costo della manodopera.

Tutti questi fattori hanno determinato l'avvio della globalizzazione e animato prospettive di uno sviluppo illimitato del capitalismo, tanto più che esso si è liberato dalla minaccia del comunismo. L'esito di queste aspettative è stato il boom dell'economia statunitense e della Borsa nel corso degli anni '90.

Ora comincia ad essere chiaro che quel boom celava una crisi strutturale, che infatti è esplosa. Avendo analizzato in un altro articolo il carattere strutturale di questa crisi, non ripeterò cose già dette. Un aspetto di essa merita però una particolare attenzione, perché, in una certa misura, è nuovo.

2.

Questo aspetto è da ricondurre al fatto che la crisi, se investe massicciamente la classe operaia che, in nome della flessibilità, deve adattarsi a condizioni di lavoro che sono sempre più incentrate sullo sfruttamento e sulla precarietà, non salvaguarda, come è accaduto in passato, la classe media, soprattutto una sua componente importante: quella che ha un reddito pressochè fisso. Il ceto impiegatizio, sia privato che pubblico, è stato infatti investito esso stesso dall'ideologia della flessibilità, che comporta, per chi lavora, una richiesta di prestazioni sempre più elevate da fornire, indipendentemente dalle regole contrattuali, con lo spettro del licenziamento sul collo. La piccola borghesia, che, in nome della sua tradizionale parsimonia, forniva un contributo importante agli investimenti in Borsa, ha visto falcidiati dalla crisi i "sudati" risparmi. A ciò occorre aggiungere, particolarmente in Europa, la crescita dei prezzi e delle tariffe dei servizi, e la prospettiva di un allentamento progressivo della protezione offerta dallo Stato sociale, che è in crisi.

Tutto ciò ha prodotto non l'immiserimento nero previsto da Marx, bensì il fatto che questo ceto, numeroso e importante, sta perdendo le sue sicurezze e sta lentamente slittando verso la fascia della povertà relativa. Numerosissime famiglie a reddito fisso, in effeti, che, negli anni precedenti, vivevano decorosamente, hanno ormai difficoltà ad arrivare alla fine del mese, e cominciano a indebitarsi.

Si dirà che questo indizio è di poco conto. All'interno della classe media, gli imprenditori, i managers, gli agenti di Borsa, i libero-professionisti hanno aumentato a dismisura, negli anni '90, i loro guadagni, e, agevolati dagli sgravi fiscali (e in Italia dai condoni) a loro favore, godono ancora ottima salute dal punto di vista economico. E' vero, ma non lo è del tutto. Un indizio singolare a riguardo proviene dagli Stati Uniti, laddove, oltre alle aziende, anche i capi-famiglia possono avviare un'istanza di fallimento per arginare una rovinosa caduta verso il basso in conseguenza dei debiti. Ora, il tasso dei fallimenti individuali è aumentato negli ultimi venti anni in misura esponenziale. Non si tratta di famiglie risotte in povertà, bensì di famiglie che non possono più mantenere il loro tenore di vita abituale, e scivolano dal ceto medio-alto a quello basso.

Se si considerano questi aspetti, le previsioni di Marx sembrano avviate ad avverarsi dopo un secolo e mezzo. Naturalmente, esse non si realizzano così come si sarebbero potute realizzare nell'800 se il capitalismo non avesse trovato le giuste contromisure, vale a dire sotto forma di una scissione della società in ricchi o strricchi e poveri. Si realizzano viceversa in nome di una concentrazione dei capitali verso l'alto, che riguarda una fascia ragguardevole di ceti abbienti, il cui prezzo però non è più solo lo sfruttamento, la precarietà e la disoccupazione operaia, ma anche un progressivo slittamento verso il basso, verso la fascia della povertà relativa, del ceto piccolo-borghese.

Immediatamente, questo può non significare molto. Può essere anzi un dato inquietante, perché la piccolo borghesia, giusta l'analisi di Marx, quando viene investita da una crisi, come è accaduto dopo il crollo della Borsa del 1929, tende piuttosto a rivelare la sua anima reazionaria, ad affidare il potere a forze di centro-destra nella speranza di recuperare terreno a danno della classe operaia. Il problema è che, data la crisi strutturale in atto, come dinostra con chiarezza sia l'attuale esperienza statunitense che quella italiana, i margini di manovra delle forze di centro-destra, contese tra il favorire la concentrazione dei capitali e il rispondere alle aspettative di una piccola borghesia che rappresenta da sempre il suo piedistallo elettorale, si riducono progressivamente. Per ora, anzi, nell'intento di superare la criis, tutti i provvedimenti adottati sembrano rivolti a favorire la concentrazione dei capitali.

La parola d'ordine del neo-liberismo è che, per distribuire la ricchezza, occorre prima produrla. Dato che esso ritiene che l'unica produzione efficiente sia quella privata, per promuoverla esso deve favorire la concentrazioe dei capitali: privilegiare insomma gli investimenti rispetto al consumo, dando per scontato che gli investimenti producano un aumento dell'occupazione, allargando la base del consumo. Non sembra però che questa previsione sia fondata. Le ristrutturazioni intervenute negli anni '90 e quella che so sta realizzando attualmente negli Stati Uniti puntano piuttosto su di un aumento della produttivita senza crescita dell'occupazione. La conseguenza di questo è uno sfruttamento progressivo dei dipendenti e il mantenersi di un tasso di disoccupazione elevato. Queste circostanze creano, sia pure per motivi diversi, una situazione d'insicurezza e di frustrazione che pervade la classe dei disoccupati, quella dei lavoratori e quella dei dipendenti piccolo- e (per alcuni aspetti) medio-borghesi.

La società occidentale non si sta dunque proletarizzando, ma di sicuro scindendo in due categorie: quella dei ricchi, il cui patrimonio aumenta anche nei periodi di crisi, e quella di una vasta fascia della popolazione, maggioritaria, che vive, se non nella miseria, nell'insicurezza, nella precarietà e nella paura del futuro, costretta comunque a ridurre il tenore di vita.

Attribuire questo stato di cose alla crisi in corso è capzioso. La scissione si è realizzata preliminarmente negli Stati Uniti, negli anni '90, vale a dire nel periodo di un boom e di una produzione di ricchezza che non ha riscontro nella storia dell'economia. Non si tratta dunque di una conseguenza della crisi intervenuta nel 2000, ma di una linea di tendenza del sistema capitalistico, impossibile da interpretare se non si riconduce, mutatis mutandis, all'analisi di Marx.

Che cosa avverrà, nessuno ovviamente lo sa. E' importante però prendere atto che il capitalismo sta entrando in conflitto non solo con la classe operaia ma con un ceto che ha rappresentato il piedistallo del potere borghese . Gli sviluppi non sono prevedibili, ma tenere conto di quanto si è detto dovrebbe valere il dubbio che le diagnosi di Marx siano state accantonate troppo frettolosamente dai partiti occidentali di sinistra.

Ottobre 2003